LA COSTANTE RESISTENZIALE, VOL. III – LO STRANO CASO DELLE PIETRE SONORE DI ELMAR DAUCHER E PINUCCIO SCIOLA.

Il terzo “capitolo” dedicato dal duo artistico-curatoriale Montecristo Project al tema della Costante Resistenziale oscilla tra due macro tematiche. Da un lato vengono affrontati alcuni snodi di carattere non prettamente artistico, ma piuttosto mediale (in questo caso da intendersi non in relazione al medium, quanto ai media) -comunicativi, destinati a sollevare differenti quesiti: quali connessioni esistono tra la realtà e lo storytelling? In quale maniera l’imporsi di una narrazione – e dunque la costruzione/restituzione mediatica della stessa – influisce sulla natura delle circostanze reali?

Come si vedrà di seguito, tra tali poli pare esistere una relazione orientata all’infrasottile,  nell’accezione Duchampiana di quel termine, in seguito ripreso da Elio Grazioli (Grazioli, Iinfrasottile. L’arte contemporanea ai limiti 2018), che racchiude quanto appare prossimo ad una percezione sensoriale infinitesimale. 

In secondo luogo e in maniera strettamente dipendente dal primo “topic”, Montecristo Project propone la rilettura critica delle vicende e della produzione dell’artista sardo Giuseppe Sciola, protagonista in prima persona di quello che il duo curatoriale individua quale processo di pseudo-narrazione o sovra-lettura messa in atto da interlocutori di vario genere (tra i quali, la critica d’arte).

Procediamo riprendendo sinteticamente i principali punti del contributo. Il titolo dal sapore giocosamente letterario Lo strano caso delle Pietre Sonore di Elmar Daucher e Pinuccio Sciola (che mima appunto la costruzione sintattica del celebre romanzo di Stevenson Lo strano caso del Dr Jekill e Mister Hyde) pone al centro un tema storico-artistico tutt’altro che banale, ovvero la natura intimamente duplice dell’opera di Pinuccio Sciola. Vagliando le argomentazioni di Montecristo Project, emerge come tale duplicità risieda nel drastico mutamento – a tal punto marcato da parere a tratti inspiegabile – riscontrabile nell’evoluzione del maestro sardo a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. In questo senso la poetica di Sciola, dopo un periodo orientato ad una pratica scultorea prossima a quella novecentesca di Arturo Martini o di Giacomo Manzù, subisce una battuta d’arresto, o meglio si articola in una personalissima dichiarazione d’intenti. Così, nel ’96 Sciola licenzia le prime Pietre Sonore, opere di matrice dichiaratamente astratta e concettuale.


L’approdo al “minimalismo” da parte dell’artista sardo – sebbene di minimalismo sia complesso parlare, soprattutto in relazione alla supposta autoreferenzialità propria dell’originaria corrente americana – non comporta però un venire meno nella produzione dello stesso di quegli elementi endogeni alla cultura sarda. Pinuccio Sciola rimane, all’interno del panorama dell’arte contemporanea sarda, colui che, nelle parole di Montecristo Project, “È stato quel tipo di figura capace di promuovere, sostenere e alimentare un dialogo tra artisti e comunità senza sofisticazioni o esclusioni. Ponte tra modernismo e produzione popolare tra arte e artigianato, Sciola diviene per noi un’importante figura per seguire le tracce nascoste di quelle forme arcaiche e primitive che riemergono nella nostra isola quale sopravvivenza imprevista di una creatività spontanea, originaria e specificatamente sarda”. Il presentarsi tuttavia di operazioni artistiche di carattere maggiormente ornamentale e decorativo, proprio di certe sculture di grandi dimensioni dislocate in Sardegna, in cui l’affondo semantico di Sciola viene meno in favore di un’esteriorizzazione ornamentale – definita da Montecristo Project con l’efficace sintagma “’estetica da piscina della Costa Smeraldo” – potrebbe riferirsi ad “ingerenze” della committenza.  

La Costante Resistenziale ravvisabile nell’operare del maestro, pare emergere nella peculiare interpretazione che il medesimo propone dell’estetica minimalista. A testimonianza di ciò,  se le Pietre Sonore richiamano, almeno sotto il profilo formale, le composizioni di linee verticali e orizzontali di  Max Cole, le texture geometrizzanti di Frank Stella o di Sol Lewitt – così come l’utilizzo della forma cubica o ortogonale rimanda ancora a Lewitt – l’impiego della pietra e la possibilità, così poetica, aniconica, ancestrale, che la stessa vibri e risuoni nell’etere, avvicina tale produzione a qualcosa di mitico, arcaico, potentemente connotato.

Ed è su questo discrimine dell’ancestrale tendente al magico, che appare vitale evitare di costruire una narrazione (lo storytelling con cui si è aperto il contributo) che conduca maestri sardi quali Sciola, Maria Lai e Costantino Nivola ad una condizione sciamanica, agiografica e surreale.  Una ricostruzione possibile ed alternativa a ricostruzioni “idealizzate” è quella che si potrebbe avviare  partendo da un’attenta disamina delle fonti e delle relazioni tra l’artista e gli altri autori. In tale contesto e in maniera quasi fortuita, per voce di un’amica, Montecristo Project ha potuto mettere luce sull’improvviso cambio di direzione dell’opera di Sciola, rinvenendo una stringente vicinanza con una serie di opere licenziate nel 1974 da Elmar Daucher con il titolo di Klangsteine, ovvero Pietre Sonore. Che ciò non si riduca ad una mera imitatio o ad una copia accademica dell’originale soggetto sonoro, lo si evince dal lasso temporale di oltre vent’anni esistente tra le due esecuzioni (le prime Pietre Sonore di Sciola risalgono infatti al 1996). Piuttosto, verrebbe da pensare che, nel corso dei due decenni, l’artista sardo abbia portato a maturazione riflessioni e orientamenti eterogenei – l’estetica minimalista, l’elemento performativo proprio di certe manifestazioni artistiche degli anni Settanta, la potente eredità della scultura realista del Novecento – per passare da una pratica artistica realistica e sociale, ad una aniconica, materica ed emozionale, più prossima alle operazioni di Arp, Brancusi e Moore.

In conclusione, alla base del processo artistico di Giuseppe Sciola possono essere riscontrati sia una sensibilità tecnica e tattile per la materia da plasmare, sia un’ispirazione potente, genuina, naif e “autoctona”, che lo differenziano da altri autori aventi una riflessione di matrice maggiormente teorica e ideale. Tale propensione locale e ispirata, potrebbe definirsi, anche per il serbatoio di forme e di materiale di cui si avvale, mediterranea.

Text: Valentina Bartalesi